L’attuale crisi finanziaria che attanaglia l’Occidente ha un colpevole unanimemente additato: la mancanza di etica. Ma l’etica attiene più al campo della filosofia che dell’economia, e la filosofia ha molto a che vedere con la religione. Morale: se l’idea di bene comune e non l’avidità egoistica avesse guidato gli speculatori, oggi non saremmo a questo punto. Ebbene, le cosiddette banche islamiche, gli affari delle quali sono ispirati non dal “mercato” ma dal Corano, avrebbero qualcosa da insegnare all’Occidente in ginocchio. A sostenerlo, e con cognizione di causa, sono Loretta Napoleoni e Claudia Segre sul numero del gennaio 2009 di «Vita e Pensiero», la rivista dell’Università Cattolica. La Napoleoni è tra i massimi esperti di terrorismo ed economia internazionale, la Segre è una banchiera di alto livello. Il titolo del loro articolo è: «L’islam può aiutare la finanza dell’Occidente?». La risposta che danno alla domanda è sì; anzi, la finanza occidentale deve prendere esempio da quella islamica, dalla quale ha tutto da imparare. L’articolo, prima di addentrarsi nell’attualità e nelle prospettive future, premette una breve storia della finanza islamica. Ne facciamo un piccolo riassunto. Innanzitutto l’islam proibisce la riba, il prestito a interesse, divieto che ha complicato non poco l’economia dei musulmani e, di fatto, ha impedito anche l’idea stessa di «banca». Insomma, l’intero capitalismo, che appunto sul prestito a interesse si basa, è stato reiteratamente colpito da fatwa, e quegli sceicchi che hanno voluto fare affari con l’Occidente hanno dovuto, diciamo così, tenere in due tasche distinte i soldi e il Corano. Ma per gli altri è sempre valsa la sha’ria, per la quale qualunque attività economica non può prescindere dalla zakat (l’elemosina obbligatoria, uno dei cinque pilastri dell’islam) e il prestito istituzionalizzato può, al massimo, riguardare un finanziamento per il pellegrinaggio alla Mecca (altro pilastro). Ma nel 1963 un egiziano che aveva studiato economia in Germania avviò un timido esperimento. L’uomo si chiamava al-Najjar e, in Germania, era stato affascinato da quell’economia «sociale» dettata dai principi cristiani (a sua volta influenzata dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII e dalle soluzioni originali escogitate dai cattolici, tipo casse rurali e casse di risparmio). Infatti, al-Najjar fondò proprio una Cassa Rurale di Risparmio, la cui attività, però, era supervisionata da un comitato di ‘ulama, che vegliavano affinché tutto fosse halal, cioè in regola con le norme coraniche. Niente investimenti in armi, gioco d’azzardo, alcool, tabacco, pornografia (nel senso, larghissimo, del termine, che riguarda anche gli abiti succinti) e aggiramento dell’«usura» (prestito a interesse) tramite contratti partecipativi e diversificate forme di affitto. Questa banca, pur così sorvegliata, fu sempre guardata con sospetto nel mondo islamico e dopo soli cinque anni Nasser la chiuse. Ma il successore, Sadat, ne riprese il modello (contabili e ‘ulama a contatto di gomito), nazionalizzandolo. La grande crisi petrolifera del 1973-74, quadruplicando il prezzo del greggio, inondò di denaro i Paesi arabi, i quali furono costretti a dotarsi di istituzioni finanziarie di maggior respiro. Ma sempre halal. Anzi, agli ‘ulama vennero affiancati i fuqahà, gli esperti di diritto islamico. Sorsero come funghi  le banche islamiche, tanto che nel 1977 si dovette creare una International Association of Islamic Banks, il cui segretario fino al 1991 fu proprio il pioniere al-Najjar. La catastrofe delle Twin Towers cagionò un rientro precipitoso di petrodollari che, ancora una volta, fece schizzare al cielo le disponibilità finanziarie dei Paesi petroliferi. Nacquero allora le prime emissioni obbligazionarie halal (dette sukuk), rilanciate in terre non islamiche dalla Sassonia (nel 2004), cui seguì la nascita della Islamic Bank of Britain. Ormai l’Occidente aveva fiutato l’affare e l’offerta di «prodotti» commestibili per un miliardo e mezzo di musulmani dilagò. Oggi la cosiddetta finanza islamica coinvolge sui quattrocento operatori in oltre settanta Paesi, per un giro d’affari di due trilioni di dollari e un tasso di crescita annuo del 15%. Si stima che il vero e proprio boom avverrà nei prossimi cinque anni, arrivando a coprire l’8% dell’intera economia mondiale. Torniamo allora alla domanda iniziale: perché l’Occidente dovrebbe imparare la lezione islamica? In effetti, agli istituti di credito halal è vietata la speculazione, l’insider trading e la creazione artificiale di moneta, i cancri che hanno portato l’Occidente ai problemi attuali. Il denaro halal è un mezzo, non un fine; l’emissione di sukuk è legata a un investimento reale, come una costruzione o una strada, e non può finire, pur con giri contorti, in attività immorali. Poiché è assente nel mondo musulmano la mentalità individualista e tutti si sentono parti della umma, l’egoismo, radice dei mali occidentali, è atavicamente impensabile e il «sistema», strettamente controllato dal punto di vista morale, gode della piena fiducia. Ciò che oggi manca a quello occidentale. La crisi di fiducia fa sì che nell’Occidente ci sia una liquidità stagnante che abbisogna di essere rimessa in movimento. Fin qui Napoleoni e Segre. Da qui, però, un’amara riflessione: è paradossale che l’Occidente debba imparare dall’islam parte di ciò che esso stesso ha inventato e di cui si è disfatto con l’avere estromesso la sua religione dall’ambito pubblico e sociale. Sono stati i teologi francescani del XII e XIII secolo a sciogliere il nodo teologico dell’«usura» e a permettere la nascita del capitalismo nell’Italia cattolica. Erano cattolici quei banchieri e mercanti medievali che, sviluppandosi nelle libertà politiche dei Comuni, inventarono tutti gli strumenti dell’economia, permettendosi di essere creditori di interi regni. Erano cattolici quegli operatori che mettevano la voce «messer Dio» a bilancio e finanziavano cattedrali e ospedali e scuole. E ciò senza che i preti sedessero nei consigli d’amministrazione a dettare le regole dell’etica. L’idillio finì con la spaccatura protestante e la predestinazione calvinista che vedeva negli economicamente svantaggiati dei reprobi. Un altro tipo di etica economica, spietata, si impose. Oggi, l’Occidente che ha rinnegato le proprie radici religiose deve mendicare «etica» da chi non ha conosciuto né Riforma protestante, né Illuminismo, né secolarizzazione. Chissà, forse c’è davvero la mano di Dio in tutto questo. Forse, davvero, chi rigetta il giogo «leggero e soave» di Cristo finisce fatalmente per accollarsene un altro ben diverso.

Fonte: Studi Cattolici n. 579, maggio 2009.