Sul settimanale «Tempi» del 21 luglio 2009 la studiosa Anna de Bono fa notare che cresce il numero degli economisti africani contrari agli aiuti umanitari. Che ingrassano i dittatori e abituano la gente a mendicare. L’Africa ha avuto finora oltre mille miliardi dollari in aiuti. Risultato? La povertà è salita dall’11 al 66%. L’economista zambiana Dambisa Moyo fa presente che trent’anni fa paesi come il Burundi e il Burkina Faso (oggi tra i più poveri del mondo) avevano un Pil pro capite superiore a quello della Cina; il Kenya nel 1961, quando ancora era colonia britannica, ne aveva uno maggiore di quello della Corea del Sud. Per il kenyano James Shikwati «gli aiuti finanziano enormi burocrazie, contribuiscono a rendere dilagante la corruzione, soffocano la libera iniziativa, permettono ai leader politici di ignorare i bisogni dei loro connazionali. Ovunque hanno creato una mentalità pigra e hanno abituato gli africani a essere dipendenti e mendicanti». Per esempio, la Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo: malgrado le loro immense ricchezze, non solo non fanno nulla per ridurre la povertà ma premono per essere classificate tra le nazioni più bisognose. Gli unici a ricordare tutto ciò pubblicamente sono il papa e, recentemente, Obama (che, dato il suo colore, può permettersi di parlare chiaro), che, ad Accra, nel Ghana, ha detto: «Nessun paese può creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l’economia per arricchirsi. Nessun imprenditore vuole investire in un paese il cui governo fa su tutto una cresta del venti per cento. Nessuno ha voglia di vivere in un paese in cui regnano ferocia e corruzione. Questa non è democrazia, ma tirannia anche se qualche volta si va a votare. E deve finire». Ciò ha detto all’indomani di un G8 che, però, ha destinato altri venti miliardi di dollari agli aiuti. Moyo e Shikwati dicono chiaramente che è ora di smetterla. In Africa «ci sono centinaia di chilometri di strade che collegano il nulla al nulla e attraversano regioni in cui quasi nessuno dispone di un’automobile». Ci sono «attrezzatissime strutture ospedaliere inutilizzabili perché costruite in paesi sprovvisti di medici» e edifici scolastici rimasti vuoti per mancanza di insegnanti. Ci sono «fabbriche dalle quali non è mai uscito un prodotto finito o che hanno lavorato a regimi così bassi da fallire in breve tempo, come quella per la produzione del burro di karité costruita negli anni Novanta dalla cooperazione italiana in Burkina Faso, in una regione dove nessuno coltivava il karité e dove mancava l’acqua». Anna de Bono ricorda anche il recente L’industria della solidarietà, della giornalista olandese Linda Polman (Bruno Mondadori), nel quale si punta il dito sul principio delle Ong di aiutare chiunque stenda la mano, senza distinguere tra vittime e aggressori. Si calcola che siano tra il 15 e il 20% i c.d. refugee warriors, guerriglieri che si mescolano ai civili nei campi profughi. Lucrano cure, cibo e alloggio per continuare con le loro stragi. E poi le tangenti sul transito dei convogli umanitari, le estorsioni, le percentuali ai politici e ai militari per avere il permesso di operare. Così che i vari  contendenti dispongono «di sempre rinnovate risorse per continuare a combattere e a infierire sui civili».