Un breve ma interessante articolo di R.A.Segre, uscito sul «Il Giornale» nel novembre 2009, racconta del tempo in cui l’italiano era la lingua franca del Mediterraneo, usata nei commerci e in diplomazia (aggiungo io che era anche la lingua colta alla corte asburgica, mentre in quella piemontese si parlava francese). Per esempio, il trattato di Küchuk Kainardja che pose fine alla guerra russo-turca era redatto in russo, turco e italiano ma all’art. 28 stabiliva che, in caso di controversie, la versione in italiano era quella di riferimento. L’italiano servì anche a veicolare concetti tratti dal Corano, il quale non poteva essere tradotto e nemmeno stampato: i caratteri arabi furono fabbricati a Lipsia e usati per la prima volta a metà dell’Ottocento grazie ai macchinari presi da Napoleone a Roma e abbandonati precipitosamente al Cairo. Poiché il sultano si considerava il padrone del mondo ed era il servo a dover imparare la lingua del padrone (e non viceversa), nacque la casta dei «dragomanni» (dal turco turjeman, traduttore) che facevano capo al Grande Dragomanno istituito dal sultano nel 1661. Erano cristiani balcanici, di solito greci ma anche cristiani ed ebrei passati all’islam. In Occidente erano chiamati «levantini» e divennero noti per la loro furbizia diplomatica. Innanzitutto usavano l’italiano, lingua «neutra» perché politicamente inoffensiva (nella penisola non c’era alcuna Potenza in grado di impensierire). Poi, la manica larga nel tradurre faceva da olio negli ingranaggi. Per esempio, il sultano Murad III concesse agli inglesi di Elisabetta I di commerciare sui suoi territori. Ma nell’accordo aveva fatto scrivere che Elisabetta era regina del «vilayet» d’Inghilterra («vilayet»: provincia turca) e che di lei si apprezzava «la remissività, la devozione e sottomissione». La versione italiana rese il tutto così: «sovrana di sincera amicizia». Poi venne l’unità piemontese e l’Italia divenne l’«Italietta» crispina con pretese di Potenza…