Giuliano l’Apostata era convinto che il tempio di Apollo in Dafne, vicino ad Antiochia, fosse stato incendiato dai cristiani e non da un fulmine. Per vendetta, nello stesso anno 362, in Antiochia «la principale chiesa cristiana fu chiusa e poi saccheggiata dei preziosi arredi donati da Costantino e da Costanzo». Se ne incaricò lo zio di Giuliano e suo omonimo, «ch’era stato cristiano anche lui ma poi era ritornato al paganesimo» come il nipote. Fu coadiuvato dal sovrintendente Felice. Non contento, orinò sull’altare e defecò nei vasi sacri. «Il vescovo ariano Euzoio, quello che aveva battezzato in punto di morte Costanzo, protestò ma in riposta fu schiaffeggiato». Felice «morì poco dopo per emorragie violente dalla bocca». Lo zio Giuliano fu «preso da una violentissima affezione intestinale, il suo interno si disfaceva in marciume e gli escrementi uscivano dalla bocca». Sua moglie, che era rimasta cristiana, gli disse che ciò era dovuto al male fatto alla chiesa. Giuliano pregò suo nipote di porvi rimedio «ma l’imperatore non acconsentì, e lo zio dopo lunga agonia morì». La gente cominciò a pensare che prima o poi la stessa sorte sarebbe toccata a Giuliano l’Apostata. Infatti, cadde l’anno seguente in battaglia contro i persiani. Giuseppe Ricciotti (Giuliano l’Apostata, Mondadori 1956, pp. 268-269) fa notare che un cinquantennio prima, dopo la grande persecuzione di Diocleziano, il cristiano Lattanzio aveva scritto un libro, De mortibus persecutorum, in cui si mostrava la fine che facevano i persecutori dei cristiani.