Domenica pomeriggio, vorrei confessarmi. Leggo che, nella chiesa dove vado, le confessioni avvengono mezz’ora prima della messa, che è alle 18. Vado alle 17,30. La chiesa è vuota, i quattro confessionali pure. Seduto sui banchi, vicino a uno di essi, c’è un signore anziano col piumino beige. Magari attende. Esco a fare un giro. Ritorno. Il confessionale vicino al quale c’è il signore col piumino beige ha adesso la luce accesa. Mi accosto, guardo, è vuoto. Chiedo al signore se deve confessarsi anche lui. Mi fa un gesto che non capisco. Guardo ancora il confessionale vuoto, ripeto la domanda. Mi dice che, se devo confessarmi, posso accomodarmi. Non capisco ancora. Obietto che il prete non c’è. Risponde che il prete sarebbe lui. Ah. Chiarito l’equivoco, mi inginocchio e mi confesso. Di mala voglia, devo dire, perché ho avuto la fondata impressione di dare fastidio. Ora, poiché non è la prima volta che mi capitano situazioni del genere, mi sto chiedendo seriamente: ma perché ai preti scoccia così tanto confessare? Per molti di loro è chiaramente una rottura di scatole. Ma perché, mi chiedo? Nell’era del dialogo, l’unico dialogo vero e sacramentato non lo sopportano? Perché questa parte del loro mestiere, parte essenziale tra l’altro, la fanno di malavoglia e cercano di schivarla come possono? Lo so, essere prete oggi non è facile. E «essere prete oggi» è il titolo di almeno un migliaio di convegni negli ultimi anni. So anche che, data la penuria di vocazioni, la Chiesa non può fare la difficile nella scelta. Ma dovrebbe organizzare un convegno dal titolo: «Prete, che cosa ti va di fare?».