Chiamato per presentare il mio libro «Come fu che divenni C.C.P. (cattolico credente e praticante)» -Lindau- in una televisione digitale di una certa importanza, non ho tardato ad accorgermi che l’intervistatore il libro non l’aveva neanche letto. Nemmeno la copertina l’aveva colpito (e, lo ricordo, in copertina ci siamo io e Cassius Clay). Tutte le domande vertevano, per una buona mezz’ora, sul «caso Ruby» e la posizione della Chiesa in materia morale sull’argomento. Per quanti sforzi facessi per svicolare, il discorso tornava sempre lì. A un certo punto mi resi conto che il mio continuo tergiversare poteva essere interpretato come reticenza. Non mia ma della Chiesa. Sì, perché in quel momento secondo l’intervistatore io rappresentavo la Chiesa e parlavo a nome suo. Succede sempre così quando invitano in tivù o in radio un autore dichiaratamente cattolico. Così, mi rassegnai a rispondere e a dire che, per la Chiesa, il «caso Ruby» riguardava tutt’al più il confessore. In collegamento, per giunta, avevano messo uno che aveva scritto libri contro Comunione e Liberazione, nominato per l’occasione «esperto» di malefatte vaticane. Se qualcuno si chiede come mai il sottoscritto compaia di rado sui media nazionali, rifletta su quanto detto. P. s.: alla diciottenne marocchina in questione, il «nome d’arte» di Ruby Rubacuori deve averlo messo in testa qualche sessantenne. Infatti, si tratta delle versione italiana del titolo «Ruby Tuesday», una canzone dei Rolling Stones dei primissimi anni Sessanta, cantata da noi dal complesso I Profeti. Difficilmente una diciottenne marocchina poteva saperlo.