Scrive la specialista Anna Bono (8 luglio 2015) che «tutte le Ong internazionali e nazionali messe insieme rappresentano la quinta economia del pianeta, con un bilancio annuale, per le sole emergenze dovute a catastrofi naturali e conflitti armati, di sei miliardi di dollari offerti dai governi e di altre centinaia di milioni di dollari donati dai privati». Ma nel libro “L’industria della solidarietà” dell’olandese Linda Polman si parla di «sprechi, improvvisazione, protagonismi di operatori umanitari irresponsabili, cifre gonfiate sull’entità di un problema per ottenere più finanziamenti, concorrenza tra le Ong per aggiudicarsi l’attenzione dei mass media e quindi i fondi dei governi e degli organismi internazionali, rapporti più che approssimativi su spese e risultati conseguiti». Si aggiunga il fenomeno dei combattenti che si nascondono tra i civili nei campi per profughi: «secondo alcune stime, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti dei campi profughi del mondo sono refugee warriors che tra un pasto e un trattamento medico portano avanti le loro guerre». Infine, c’è «la quantità immensa di denaro e di beni destinati alle popolazioni in difficoltà, seviziate, spogliate di ogni bene e messe in fuga dalle milizie contendenti, che in un modo o nell’altro – sotto forma di dazi per il transito dei convogli, di estorsioni, percentuali concordate, furti sistematici e via dicendo – finiscono invece sistematicamente nelle mani dei combattenti, i quali perciò dispongono di essenziali risorse per continuare a lottare e a infierire sui civili inermi». Diceva Totò: e io pago!