Devo prenderla alla lontana e parlare dei fatti miei, me ne scuseranno i lettori. Ma è necessario, perché sia chiaro che non parlo per teorie, bensì per esperienza pratica in qualità di cittadino qualsiasi. Alcuni anni fa, essendo morto ancora giovane per un brutto male mio cognato, andai a sgombrare il suo ex ufficio facendomi aiutare da alcuni extracomunitari sudamericani ingaggiati all’uopo. L’operazione richiese alcuni giorni. I mobili erano tutti da ufficio, cioè di poco valore, tranne uno che era d’antiquariato. L’ultimo giorno del trasloco trovammo la finestra sfondata, la porta blindata scardinata dall’interno e un unico mobile sparito: quello. Chiamai i carabinieri, che mi mandarono, con tutto comodo, uno svogliato giovane maresciallo che prese nota. Ora, poiché di quel mobile sapevano solo i miei extracomunitari, feci presente al sottufficiale che almeno avrebbe dovuto identificarli. Si decise, dunque, a chiedere loro i documenti. Non ne avevano. «Come!» disse «Voi andate in giro senza documenti?». E fu tutto. Naturalmente, il mobile rubato non l’ho mai più rivisto. Nel 2011 ho subito il furto dell’unica auto, quella di famiglia. Fidandomi del concessionario, che mi aveva garantito essere quel modello assolutamente non appetito dai ladri, non avevo rinnovato l’assicurazione contro il furto. E mal me ne incolse. Poiché, bontà loro, i ladri avevano lasciato per strada la carrozzina di mia suocera invalida (portandosi via tutto il resto), nello sporgere denuncia al commissariato ebbi l’ingenuità di suggerire che quella carrozzina doveva essere piena di impronte digitali. Mi sghignazzarono in faccia. Il motivo della loro ilarità era chiaro: caro signore, sa quante auto vengono rubate ogni giorno a Milano? In effetti, non faceva una piega: se le forze dell’ordine dovessero occuparsi di tutti i furti d’auto non resterebbe loro tempo per le rapine a mano armata e gli omicidi. Così, valse per me il detto napoletano «chi ha avuto ha avuto…». Naturalmente, neanche l’auto ritrovai mai più. L’anno successivo lessi sui giornali che dall’auto di Michele Santoro, il famoso conduttore televisivo, era stata trafugata una macchina fotografica. A Roma. Non l’auto intera, solo un oggetto al suo interno. In una città dove i furti di auto intere sono almeno una cinquantina al giorno se non di più. Però, lessi nello stesso articolo che per quella macchina fotografica da Vip si erano scomodati nientemeno che i Ris, la quintessenza dell’investigazione scientifica italiana, così sofisticata da meritare una serie di telefilm. Due mesi fa, con grande evidenza, stampa e telegiornali riportarono la notizia che la bicicletta del ministro Alfano, rubata, era stata individuata in pochi minuti grazie all’analisi, da parte delle forze dell’ordine, delle immagini delle telecamere di sorveglianza e l’incauto ladro di polli era stato prontamente assicurato alla giustizia. Conosco bene il lungomare di San Leone, in provincia di Agrigento, dove il ministro ha parcheggiato la sua bici per andare in gita in barca. Da quelle parti ci sono nato e non faccio fatica a immaginare la scena. Faccio più fatica, molta più fatica, a immaginare quanti furti di bici, a San Leone o nel resto del Paese, vengano così prontamente risolti dalla forza pubblica. Mi è più facile, molto più facile, immaginare i poliziotti e i carabinieri che sorridono quando un poveraccio va a denunciare il furto della sua bici chiedendo che si attivino per fargliela recuperare. Caro signore, ma lei lo sa quante bici vengono rubate ogni giorno? Se dovessimo indagare su ognuna, non ci resterebbe tempo per le rapine a mano armata e gli omicidi. Troppo giusto. Epperò, quando si tratta di un conduttore televisivo che può sparare l’«inefficienza della polizia» in prima serata, il tempo lo trovano, e anche i mezzi. Lo stesso quando si tratta di un politico che può dare qualche grattacapo al dirigente di turno. O col quale fare a tutti i costi bella figura e sfoggio di efficienza. Non si pensi male delle mie parole: mio padre era un maresciallo di polizia e mio suocero lo era dei carabinieri. Ma la piaggeria verso i potenti, in democrazia, non si sopporta. Bene, siccome sui banchi dei tribunali è scritto a lettere d’oro che «la legge è uguale per tutti», e ci sono voluti secoli di rivoluzioni e massacri per far sì che ogni cittadino venisse trattato con lo stesso riguardo, appare più chiaro perché a un certo punto mezzo Paese abbia votato, alle ultime elezioni, per un ex comico che sparava a zero contro i privilegi della Casta. Se poi non abbia mantenuto le promesse è un altro discorso. Quel che conta è che gli italiani sono ormai disposti a dare fiducia a qualunque arruffapopoli. Qualunque. Ed è segno che non ne possono più, e non sanno come fare a liberarsi della cappa «democratica» di quelli che comandano -o imperversano sui media cercando di plagiare il popolo- solo perché più logorroici e battibeccatori del resto dell’umanità. Secoli di rivoluzioni e massacri per arrivare a questo: l’inestirpabile dittatura di una «nomenklatura» di parolai, impegnati allo spasimo nel mandarsi in galera l’un l’altro ma unanimi nel non privarsi (nemmeno per demagogia!) di una pur minima parte dei loro privilegi.