La Corea costituisce un caso -unico- di autoevangelizzazione. Verso la fine del XVIII secolo i diplomatici coreani alla corte imperiale cinese conobbero i missionari gesuiti e furono ammirati dalla «nuova dottrina» che, dal secolo precedente, Matteo Ricci aveva fatto diventare quasi di moda negli ambienti chic di Pechino. Quei coreani si fecero battezzare e importarono il cristianesimo in patria. Dal 1779 al 1794 i cristiani coreani erano già quattromila. I primi sacerdoti, francesi, vi arrivarono nel 1836. Ma il Paese era chiuso al mondo esterno, tranne che alla Cina. E il nuovo credo, tanto per cambiare, fu proibito, con persecuzioni annesse. Solo nel 1886 un accordo con la Francia fece cessare, formalmente, la persecuzione. Che però continuò in modo sistematico fino al 1905, quando arrivarono i giapponesi, che cinque anni dopo si annessero la Corea. Il decano dei missionari, Piero Gheddo, dà le cifre sulla rivista “Vita e pensiero” (luglio-agosto 2012). Oggi, dopo la guerra del 1950-53, si può parlare solo della Corea del Sud, che registra il più alto numero di conversioni al mondo. I cristiani sono il 30% dei 50milioni di sudcoreani, e i cattolici il 10%. Passano al cristianesimo soprattutto i ceti istruiti delle città (il 30% dei militari è cristiano). Del Nord non si sa niente. I (pochi) profughi cattolici fanno esattamente come i dissidenti dell’impero sovietico: dicono che il “dialogo” peggiora la loro condizione e che gli aiuti della Caritas finiscono per perpetuare il regime. Chi sorvola su un aereo di linea di notte quella parte dell’Asia testimonia di un grande buco nero: è la Corea del Nord, dove manca perfino la luce elettrica.