Così ha scritto Gianbattista Rosa su «Dissensi & discordanze» del 14 dicembre 2013 a proposito del cibo «a Km. 0»: «Solo lo scemo del villaggio (…) può credere davvero che un sistema industriale ad altissima efficienza come quello attuale, a resi quasi zero, produzioni massive, trasporti e stoccaggio concentrati e ottimizzati su scala globale, possa essere più inquinante di un sistema “multilocale” con milioni di piccoli appezzamenti con scarti e resi enormi, produttività scarsa, qualità non controllabile, sistema distributivo parcellizzato, disperso e inefficiente. (…) Se contiamo i pesticidi necessari, i chilometri percorsi da un multiplo di piccoli trasportatori che uniscono innumerevoli produttori a innumerevoli magazzinetti e punti di smercio, invece che da pochi enormi Tir che collegano pochi megamazzini a pochi ipermercati, l’energia consumata per la conservazione, la quantità di prodotti scaduti e gettati per impossibilità di programmazione accurata, è evidente che il sistema a km 0 è ignobilmente più sporco di uno industrialmente avanzato. (…) C’è poi ovviamente, conseguenza inevitabile del precedente, il banale ragionamento sui costi». Chi avesse provato la «umanissima e condivisibile passione per mangiare e marmellatarsi di fichi e zucchine di propria produzione, sa bene che se dovesse anche darsi stipendio da migrante per le ore dedicate alla coltivazione, raccolta ed eventuale lavorazione del lampascione fatto in casa, il prezzo finale del medesimo sarebbe almeno doppio (…). Questi stessi personaggi sono, e diamogli questa volta ragione, per la tutela dei prodotti tipici, di qualità, le cosiddette “eccellenze”, più o meno credibili ma transeat, della produzione locale artigiana alimentare. (…) Ma, tontoloni miei, e mi trattengo, come pensate che sopravvivano e prosperino queste eccellenze, se non con la esportazione (…)?».